Quando le vite sono numeri da far quadrare
Precarietà lavorativa, precarietà affettiva, precarietà esistenziale.
Precarietà.
Darsi a vivere dovendosi adattare alla linea di comunicazione condivisa, questo è l’imperativo. Mentre cerchi di guardare le facce di ragazze e ragazzi, che barattano tanta buona volontà, mentre dissipano creatività e speranza, come un film dell’orrore dove i numeri sono il limite e i registi della nostra apnea, mi chiedo: forse siamo troppi? Forse c’è una generazione strozzata dal sobbarcarsi il peso di dover pagare un progresso drogato creato nel recente passato, e nel dovere essere debitori d’un interesse sotto il quale si innalza l’alta marea dell’avidità?
Sono troppi i pensionati, sono troppi i poveri, sono pochi coloro che celandosi dietro acronimi impronunciabili, astratti fondi di investimento ricattano la democrazia. La finta democrazia dove i numeri hanno stritolato le speranze.
Ci vorrebbero tanti bosoni fatti di sogni, capaci di moltiplicare energie e prospettive. Perché di fronte al freddo limite dei numeri è questo che ci manca: i sogni.
Allora la scelta residua è di fare di questa grande massa di carne senza speranza, delle scatole così come suggeriva trecento anni addietro J. Swift. Valorizzeremo questa materia, senza lo spreco di nessun corpo. Rifiuti speciali valorizzati dalla funzione di non accalcarsi soffocando nella pressione la loro esplosiva presenza.
Oppure non ci resta che la rabbia da scagliare contro chi ha preso troppo, scaricando sul futuro la propria ingorda sete di potere. Perché l’impotenza aleggia nell’incapacità di creare una visione capace di farci volare.
Perché senza l’imprevedibile capacità di volare non potremo mai creare nuove inaspettate energie.
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