giovedì 30 agosto 2012

Inflazione generazionale

Quando le vite sono numeri da far quadrare

Precarietà lavorativa, precarietà affettiva, precarietà esistenziale.
Precarietà.
Darsi a vivere dovendosi adattare alla linea di comunicazione condivisa, questo è l’imperativo. Mentre cerchi di guardare le facce di ragazze e ragazzi, che barattano tanta buona volontà, mentre dissipano creatività e speranza, come un film dell’orrore dove i numeri sono il limite e i registi della nostra apnea, mi chiedo: forse siamo troppi? Forse c’è una generazione strozzata dal sobbarcarsi il peso di dover pagare un progresso drogato creato nel recente passato, e nel dovere essere debitori d’un interesse sotto il quale si innalza l’alta marea dell’avidità?
Sono troppi i pensionati, sono troppi i poveri, sono pochi coloro che celandosi dietro acronimi impronunciabili, astratti fondi di investimento ricattano la democrazia. La finta democrazia dove i numeri hanno stritolato le speranze.
Ci vorrebbero tanti bosoni fatti di sogni, capaci di moltiplicare energie e prospettive. Perché di fronte al freddo limite dei numeri è questo che ci manca: i sogni.
Allora la scelta residua è di fare di questa grande massa di carne senza speranza, delle scatole così come suggeriva trecento anni addietro J. Swift. Valorizzeremo questa materia, senza lo spreco di nessun corpo. Rifiuti speciali valorizzati dalla funzione di non accalcarsi soffocando nella pressione la loro esplosiva presenza.
Oppure non ci resta che la rabbia da scagliare contro chi ha preso troppo, scaricando sul futuro la propria ingorda sete di potere. Perché l’impotenza aleggia nell’incapacità di creare una visione capace di farci volare.
Perché senza l’imprevedibile capacità di volare non potremo mai creare nuove inaspettate energie.

mercoledì 22 agosto 2012

Per quando la chiocciola non esisterà più


In un futuro di condivisione legalizzata nelle strette maglie del controllo

Mi sono svegliata con l’immane peso di dover preparare il caffè di ogni mattina. Perché come ogni mattina, la stringente ritualità del rimettersi in piedi, ha assediato il passaggio da uno spettro ad un corpo ancora stordito.
Passa mediamente mezz’ora prima che mi accorga di non essere più immersa in un sogno.
Mi sono avvicinata alla tastiera, ho rianimato il computer e accompagnata da una tazzona di caffè mi sono seduta davanti allo schermo mai spento. Erano le sette e già tre mail reclamavano di essere aperte. Impressioni, richieste, contatti e ragguagli su vita, scrittura, esperienze e dolori.
Perché la comunicazione galleggia tra la necessità di espressione e quelle di legittimazione nell’altro.
Poi dovevo mandare una mail a Tucio per un articolo di quel giorno. Ho preso l’indirizzo dalla rubrica e non ne compariva alcuno dei suoi. Leggermente inquietata sono andata a trovarlo tra le mail ricevute e quelle mandate, ma non vi era più traccia. Allora armata dell’intenzione di fare un gran copia – incolla ho cercato tra file, documenti, ma era scomparso.
Un virus? ho pensato. Ho cercato di ricostruire il suo indirizzo e mettendolo insieme ne è uscito uno monco: redazione.mons tucioghierli.it.
Pigiavo, spingevo, ma mi avevano rubato la chiocciola.
Ho pensato inquietata: una rete senza condivisione. Una rete senza l’immane responsabilità di misurare il controllo e i segnali provenienti dalla comune empatia e dalla discontinuità d’intenti.
Perché per rimanere ferma sulla mia sedia a pigiare tasti, abbiamo dovuto superare lo stretto limite di essere un’isola e condividere conoscenze, emozioni e dolore.
Ho chiuso gli occhi e quando li ho riaperti è riapparsa da sola, senza il fondo di un tasto ad averla richiamata. Era lì, riemersa dalla magica evocazione del codice binario.
Riemersa dalla necessità di abbattere barriere e costruire nuovi modelli.
Ora premo INVIO e queste parole adesso sono per voi.
O forse per me?