Quando dall’esterno, all’apice del sistema nervoso ti costringono a reagire
Alle
volte basta un frase maldetta, un gesto sconsiderato perché
dai vuoti di comunicazione possano lievitare prima gli equivoci, per
poi rompersi i rapporti. Anche in maniera violenta.
Applicando
il nostro microcosmo di sensazioni, di orgoglio e necessità di
legittimazione per il nostro vivere, ad una categoria ben più
grande quale l’appartenenza, la capacità di emergere
molto spesso coincide con la violenza, che da sola è capace di
lasciare traccia nella nostra “inciviltà” che
oserei dire “del trauma”.
Accade
che un popolo assetato e affamato, se aizzato contro le proprie
convinzioni, contro il collante capace di lasciare ancora una
speranza dentro ogni singolo elemento, inevitabilmente la violenza
esplode deflagrando i simboli avversi, nel sangue.
Mi
sorge solo un dubbio. Quanto la libertà di espressione,
quanto la possibilità di proteggersi sotto le pesanti vesti
della democrazia sono una buona giustificazione per difendere
volgarità e rumore. Eppure per quanto discutibile e
perfettibile è ogni dogma, deve essere rispettato, in quanto
la libertà è il rispetto di sé nel rispetto
degli altri. Sono stati sparsi strumenti capaci di innescare bombe.
Perché dopo le bombe ci sono le guerre. Dipende solo dalla
propaganda conseguente dai numeri di morti ed interessi da celare.
Perché le parole possono generare fatui equivoci: ad esempio
adesso l’organo di controllo e “aizzamento” delle forze
“disarmate “si chiama Ministero della Difesa, durante l’epoca
delle cinque milioni di baionette si chiamava Ministero della
Guerra.
Sono
punti di vista della stessa questione. Perché durante la
guerra si rigenera il mondo per superare la crisi
economica. Hegel diceva che la guerra è capace di far emergere
le migliori virtù di un popolo. Anche Marinetti sarebbe stato
d’accordo con questa sorta di tritamarcio. Solo che chi ci rimette
la pelle sono sempre i più indifesi.
Il
nocciolo della questione è: quanto un singolo si sente in
dovere di innescare un reazione capace di effetti
nefasti. Meglio: quanto può essere stato solo a
sentirsi in dovere di reagire? Meglio ancora: quanto, con sottili
mezzi di costrizione, a chi semina denigrazione, è stato fatto
credere di dover esprimere la propria rabbia per reagire contro la
diversità? In una parola: quanto è stato plagiato?
Come
plastilina in una partita a scacchi, si manipolano le intenzioni
attraverso i pedoni raggiungendo l’effetto sperato: una
incontrollata reazione a catena per giustificare un intervento.
Pensare
è la parte più calma della rabbia e conseguentemente
l’espressione diventa la catarsi della violenza.
Forse
immersi nei millenni addietro, quando pelosi antenati incidevano le
caverne con i graffiti, non avremmo lo stesso sguardo ammirato.
Perché ogni traccia prima di lasciare un senso degno di essere
raccontato di sé, ha bisogno delle evocazioni provenienti dal
distacco del tempo.
E
il dolore e la violenza lasceranno sempre l’eco di una triste
capacità di distruggere e costruire insieme, attraversando gli
intervalli tra morte e guerra.
Anche
se anch’io in questo momento sto aizzando per una reazione.
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